© Giorgio Fontana-La Stampa
E un blackout spedì New York all’inferno
L’esordio di è da tempo al centro dell’attenzione negli Stati Uniti: in realtà, da molto prima che venisse pubblicato l’autunno scorso. Ora che giunge anche in Italia, non è semplice separare il romanzo dal “caso letterario”: evitare di discutere i due milioni di anticipo, l’inevitabile polarizzazione di molta critica, le aspettative gonfiate oltre misura. Eppure credo sia necessario, anche per una questione di onestà critica. Città in fiamme merita, come ogni opera, di essere considerata innanzitutto in quanto tale: senza badare troppo agli aspetti extra-letterari, né liquidandola nella dicotomia del capolavoro o meno.
Ebbene: Città in fiamme è un bellissimo libro. Ha senz’altro dei difetti, il più evidente dei quali è un eccesso di linee di trama e la tendenza a dilungarsi troppo — il bisogno di dire tutto e di più di qualunque personaggio venga messo in campo. Ma sono difetti comprensibili, all’altezza della smisurata ambizione del testo: la volontà di mappare così tanti strati sociali, così tante personalità, e uno sguardo d’aquila che si concentra su ogni singolo particolare. Del resto, nonostante la sua vastità — più di mille pagine nella traduzione di Massimo Bocchiola — il romanzo non risulta mai noioso. A ciò contribuisce senz’altro la lingua di Hallberg: luminosa, potente, curata fino al dettaglio all’apparenza più irrisorio. È una lingua che trova particolare forza nelle descrizioni di Manhattan, spesso vibranti di autentico lirismo metropolitano.
Quanto alla trama, temo sia impossibile riassumerla in poche righe. Dal centro del sisma narrativo — il blackout di New York del luglio 1977 — si propagano una serie di forze ed eventi che vanno avanti e indietro nel tempo, coinvolgendo un gran numero di personaggi molto diversi fra loro: la ricchissima famiglia Hamilton-Sweeney e i suoi due eredi, Regan e William; il fidanzato di quest’ultimo, l’insegnante e scrittore nero Mercer Goodman; l’ex gruppo punk di William che si tramuta in cellula sovversiva; l’adolescente Charlie che di questa cellula diventa parte integrante; il mistero-pretesto dell’omicidio della ragazza di cui Charlie era innamorato, durante la notte di capodanno; e ancora la ricerca dei colpevoli da parte del detective Pulaski, le indagini di un giornalista che sta raccontando la vita di un artista pirotecnico, eccetera, eccetera. Sovversione e tentativo di controllo dall’alto, amore e solitudine, eroina e disagio: la massa di temi e storie compone un edificio imponente, ibrido anche nei generi e nelle soluzioni estetiche (come l’inserto di un’intera fanzine punk). In questo, Hallberg sfoggia un controllo assoluto su ogni sfumatura dell’intreccio. La sua mente di narratore ha qualcosa di implacabile — fin troppo, a volte. Non resta mistero nelle strade della sua Manhattan anni ’70: tutto, alla fine, è condotto a soluzione.
Il risultato è abbacinante, ancor più se ricordiamo che si tratta di un esordio: una riconferma delle possibilità della forma-romanzo (notizia che reca sollievo) e in particolare delle possibilità Grande Romanzo Americano, di cui Città in fiamme rinnova la tradizione (più nel solco de La fortezza della solitudine di Lethem che di Underworld di DeLillo). Qui New York emerge ancora come la città capace di riassumere ogni città, un mito che ben conosciamo, ma di cui non ci stanchiamo mai: il luogo dove vite così differenti come quelle dei protagonisti di Città in fiamme possono trovare — anche solo per un istante — il senso di un quadro compiuto: sfiorandosi, ferendosi, amandosi e poi svanendo.
direi che non ho altro da aggiungere.